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Lo spirito e il significato di C.Ar.D.

L’idea di dar vita a C.Ar.D. è nata per caso. Nel maggio del 2012 le scosse del terremoto che colpì l’Emilia Romagna si avvertirono debolmente fin nelle valli piacentine, ma furono sufficienti a spostare dalla mensola d’acciaio che la sosteneva una delle due grandi scatole di vetro di James (Jim) Hyde che avevamo nella casa di campagna in Val Tidone, e una mattina la trovammo a terra in frantumi. A quell’opera ero molto legato: era di un artista che amavo e che aveva rappresentato in modo significativo gran parte del mio lavoro degli anni Novanta, a New York e a Milano. Jim l’aveva fatta nel 1996, in uno studio che gli avevo procurato vicino alla stazione di Rogoredo, per la mostra personale con cui si era inaugurata la mia galleria di corso Garibaldi, e poco più di dieci anni dopo l’avevo ricomprata da un amico, noto collezionista d’arte contemporanea, che s’era ammalato e aveva deciso di liquidare la collezione.

Scrissi allora a Hyde, dopo tanto tempo che non lo sentivo, ed egli venne a Pianello ai primi di luglio, trasformò il nostro garage in uno studio, e in poco più di venti di giorni creò un gran numero di opere, una più bella dell’altra. Mentre era qui, arrivò per alcuni giorni anche Barney Kulok, fotografo di grande talento già presente nelle collezioni del MoMA, di cui diventammo subito amici. Il paese era incuriosito ed eccitato per l’arrivo di persone nuove ed eccentriche e per quella specie di antro del mago che era diventato il garage della nostra casa, dove Jim lavorava accompagnato da musica rock e, si diceva, ballando ogni tanto da solo sul prato antistante mentre osservava lo sviluppo delle sue opere. Decidemmo, Daniela e io, che sarebbe stato bello continuare e allargare quell’esperienza, facendovi partecipare più gente possibile. In novembre andammo a New York e incominciammo a fare progetti e a incontrare artisti. Dopo una gestazione di un anno, dovuta soprattutto alla ricerca delle sedi adatte, l’operazione prese il via nell’inverno 2013-2014.

In primavera gli artisti cominciarono i sopralluoghi per vedere i posti dove avrebbero dovuto lavorare e inserire le loro opere, e in agosto iniziò una pacifica invasione di Pianello e delle valli piacentine.
Fabienne Lasserre fu la prima ad arrivare da Brooklyn perché era incinta e doveva rientrare prima dell’opening: con metodo e precisione matematica sballò le sue casse da cui uscirono sculture colorate con anime di ferro ricoperte di fibre e stoffe dipinte, che nulla avevano della matematica precisione con cui erano state imballate, destinate ad animare come presenze extraterrestri gli spazi del Consorzio di San Gabriele. Jessica Stockholder, sbarcata da Chicago con tutta la famiglia, prese possesso della Bocciofila di viale Castagnetti, previamente modificata, in base a un suo disegno, con pedana azzurra e pareti di cemento in diagonale, e vi costruì due installazioni site specific, la più piccola delle quali era stata studiata per il magnifico cortile del Castello di Lisignano (Gazzola), dove fu poi trasferita. Rashawn Griffin, un giovane e promettente artista afroamericano, arrivato da Kansas City e da noi fornito di Lambretta, lavorava di giorno al piano di sopra dei magazzini Demaplast di via Mascaretti, debordante dai vestiti per il caldo, ma alla sera divertiva tutti esibendosi sui palcoscenici delle feste paesane in un fantasioso e disinibito italiano che studiava su duolingo.com. Di notte, scorrazzando con la Lambretta sulle strade sassose, spaventava i cinghiali. Ezra Johnson si era impadronito delle piccole fornaci per ceramiche installate da Maria Luisa Zanardi Landi nel Castello di Sarmato e sfornava a più non posso terrecotte uguali a spugnette colorate per lavare i piatti. Duilio Forte montava il suo gigantesco cavallo Sleipnir nel greto del Tidone, Denis Santachiara travestiva la facciata tutta “perbenino” ed esteticamente corretta dell’Auditorium di Pianello con un mostruoso faccione giallo a bocca spalancata, cui si accedeva attraverso una lingua rosso sangue a mo’ di passatoia.

Jim Hyde aveva messo a soqquadro il deposito della ditta Fornasari a Trevozzo per produrre, tra un capriccio e l’altro, glass boxes coloratissimi, enormi e intrasportabili.
Mentre Attilio Stocchi aveva elitariamente scelto di tenersi lontano dalla folla rifugiandosi tra gli impervi massi della fortezza di Rocca d’Olgisio, Marco Ferreri, nel disastrato bar anni sessanta della Bocciofila, faceva democraticamente rompere e calpestare tazzine 8 9 da caffè ai bambini del paese che, deliziati di poter far danni senza essere rimproverati da nessuno, scagliavano con forza centuplicata i cocci contro i muri e le finestre.

Verso sera molti del paese si davano appuntamento sul prato davanti alla Cascina Masarola per brindare, con salame e Malvasia frizzante, alla luce delle grandi sculture in acciaio e neon di Giordano Pozzi sospese tra le arcate del granaio, mentre dalla stalla sottostante i bulbi luminosi fatti con vesciche di bue dallo Studio Formafantasma dialogavano con le zucche essiccate e gli intrecci etnico primitivi di stoffe e corde di Paola Anziché. Nello stesso tempo, nei locali della villa Anguissola Scotti di Agazzano, si poteva seguire l’installazione di una bella mostra dei paesaggi fantastici di Donna Moylan, mentre le gru scaricavano in mezzo al cortile il gigantesco doppio portale di marmo “piegato” di Ron Gilad detto “l’errante”, che, essendo impegnato altrove, brillava per la sua assenza e si sarebbe manifestato solo a cose fatte, per verificare che fossero state fatte bene sotto il controllo della fida Giulia Pellegrino. Christopher Broadbent, dinoccolato, alto e magrissimo, simile a un governatore di un territorio dell’ex impero britannico, si incrociava nella piazza di Pianello con il suo giovane collega fotografo Barney Kulok, che con la paglietta alla Buster Keaton e i pantaloni blu al ginocchio sembrava uscito da un disegno di Saul Steinberg. Per tutto agosto e tutto settembre nell’auditorium di Pianello si susseguirono proiezioni di documentari, interviste agli artisti e conferenze.

Eravamo in pochi, anzi pochissimi: Daniela e sua nipote Valentina, io, Giulia Pellegrino, Franco (Kin) Raggi e mia nipote Cristina Baldacci, ma circondati da molto affetto e da tanti sostenitori: Luigi, Paola, Maddalena, Irene, Cristiano, Carlo e Vincenza, Enrica e Matteo, Davide, Maurizio e Corrado… tutti tifavano per noi. Fu una festa e una grande avventura da cui uscimmo stremati e spremuti come limoni ma felici. Coscienti, tuttavia, di doverci dare una struttura diversa per affrontare il futuro. Nacque così Amici di C.Ar.D., un’associazione no-profit con sede a Piacenza che svolge la funzione di collettore finanziario delle sottoscrizioni e aiuti che per ora riusciamo a raccogliere, pochi a dire la verità, ma che speriamo possano in futuro aumentare. Sentiamo soprattutto la mancanza di aiuti pubblici, e per ora sopravviviamo grazie, oltre che ai pochi amici e al nostro sacrificio personale, ai proventi delle vendite, che servono a sostenere la nostra attività. Quella quota di prezzo che nel sistema del mercato artistico va a profitto delle gallerie e delle case d’asta, viene infatti nel nostro caso devoluta come erogazione liberale ad Amici di C.Ar.D.

Nel mese di maggio del 2015, per volontà e con il determinante aiuto della Fondazione di Piacenza e Vigevano, vi fu una seconda edizione molto variata delle mostre di C.Ar.D. ambientate in una straordinaria serie di palazzi entro l’antica cerchia urbana di Piacenza. L’idea era stata di Giorgio Milani e si rivelò un’occasione irripetibile per mostrare la vitalità e l’adattabilità delle grandi opere d’arte contemporanea che possono, in luoghi diversi, rivivere a acquistare cadenze diverse.

Non per nostra iniziativa, C.Ar.D. 2016 ha dovuto in parte cambiare percorso e momentaneamente abolire la parte più didattica e comunicativa delle proiezioni d’arte e delle conferenze, ma pensiamo di aver raggiunto un punto più alto nella compattezza e nella coerenza della selezione artistica. Dal pazzo e scatenato gruppo di amici di cui ho raccontato, tutti di eccellente qualità e capacità espressiva, ma meno omogenei nei linguaggi e nei metodi, si è passati alla serie di esposizioni presentate in questo catalogo, dietro le quali abbiamo l’ambizione di credere che si avverta un pensiero capace di mettere in relazione le varie arti e il design, e di conseguenza anche un grande sforzo organizzativo. Alcuni visitatori lo hanno notato e ce l’hanno detto spontaneamente.

Ma è soprattutto importante che si intenda lo spirito sociale e popolare di C.Ar.D., che è quello di portare l’arte a comunicare con tutti. Non solo ridar vita e notorietà sotto profili diversi alle bellezze paesaggistiche naturali e architettoniche delle nostre campagne, ma soprattutto far capire che l’arte è “espressione poetica” e accrescimento di vita, e che il bello non è una norma imitabile o ripetibile ma qualcosa che di volta in volta si reinventa o rinasce in sintonia con la vita che cambia.

Paolo Baldacci